domenica 23 febbraio 2014

L'autonomia per cosa? Chi governa il MIUR?

Cito Panebianco dal Corriere di oggi, perché la sua riflessione sulla defenestrazione di Bonino dal ministero degli Esteri vale in realtà in modo drammaticamente uguale per tutti gli altri dicasteri:
«Soprattutto, quella sostituzione rivela una grave e preoccupante sottovalutazione, da parte di Renzi, del rapporto fra politica e burocrazia. Se puoi disporre di un ministro degli Esteri di vasta e vera competenza, ma al suo posto metti una persona, magari eccellente, ma non altrettanto esperta, vuol dire che stai deliberatamente consegnando la guida politica del ministero alla burocrazia del medesimo. Per un bel po’ saranno gli alti gradi della Farnesina, non il ministro, a decidere su tutti i dossier aperti». Ancora: «E c’è, infine, il problema dei problemi: la burocrazia. Se non si sottomette il pachiderma, se non gli si fa capire chi comanda, nessuna innovazione è possibile. E il pachiderma è da tanto tempo abituato a schiacciare con le sue zampe chiunque si faccia venire la bizzarra idea di comandarlo. Come hanno scritto Alesina e Giavazzi (Corriere del 21 febbraio), o si impongono cambiamenti nell’alta dirigenza dei ministeri o il fallimento del governo è garantito» (paneibanco-renzi-velocista-pachiderma).

Utilizzo il medesimo paradigma per la situazione del Miur: 
lo statuto e il profilo debole ai limiti dell'inconsistenza dei ministri che si sono susseguiti (Gelmini docet, ma la lista da Moratti in poi è a dir poco imbarazzante) sembra rispondere a un criterio di selezione il cui solo scopo sia impedire la possibilità che una qualsiasi visione, che sia culturale e non di mera becera ottimizzazione economica, possa essere non dico strutturata, ma finanche concepita. Il problema non è capire se esista un progetto del PD sull'istruzione e sulla ricerca (quello della destra italiana clericofascista e delle élite economiche è sempre stato piuttosto esplicito), quanto invece rendersi conto che niente potrà essere realizzato di decente in termini di innovazione, funzionalità e aumento del tasso di democrazia e merito delle istituzioni scolastiche e accademiche, finché chi assume responsabilità di governo non sia riconoscibile come qualcuno dotato di una concezione complessiva sul ruolo del sapere e sul modo della trasmissione di esso da una generazione all'altra. Che sia in grado di spiegarlo e farlo condividere, quindi di tracciare il percorso, punto per punto, che intende seguire per realizzarlo. E che conosca i vari dossier, sappia mettere ordine in e tra essi, e assuma la responsabilità di un cambiamento non episodico né dettato dall'esterno (riforma Gelmini, concorsone una tantum Profumo, ma anche le strampalate dichiarazioni di Carrozza “scuolachevorrei” sulla restituzione degli aumenti).
In mancanza di questo, al Miur come ovunque, finisce per prevalere una metodologia di governo con l'obiettivo pressoché unico di mediare con i tecnocrati del Mef (solo interesse: tagliare risorse) il modo della prosecuzione del sistema attuale e quindi delle sue reti di gestione, a cui va ascritta quell'indistricabile continua produzione di una messe di normative circolari direttive, che ingolfano la vita delle scuole e delle università, e obbligano docenti e ricercatori e alunni a burocratizzarsi e burocratizzare il loro lavoro, ovvero a asservirsi a un sistema che tutto è, fuorché struttura di tensione democratica, di partecipazione, di messa in circolo della conoscenza.

Piero Calamandrei
Se non si interviene su questo, sarà inutile se non dannoso ogni disegno di aumento ulteriore degli spazi di manovra di chi governa le singole scuole (alla luce del richiamo a un'autonomia verso cui il sistema e il personale non sembrano adeguatamente responsabilizzati). Perché una linea direttiva chiara, e prese di posizione meditate ma nette, e idee e conseguenti strategie attuative, andrebbero preventivamente espresse sul reclutamento, su un riordino moderno e finalmente non gentiliano e classista dei cicli e degli indirizzi di studio, sulle metodologie didattiche, sul rapporto tra sapere umanistico e sapere tecnico-scientifico. La positiva fase berlingueriana è stata superata sappiamo come. Forse è giunto il momento di riprenderne lo spirito e ricominciare a interrogare il sistema nel suo complesso. Altrimenti ci si chiederà sempre: ma che avete (abbiamo) in mente di farne di quest'autonomia, se eludiamo sistematicamente qualsiasi forma di pensiero responsabile su un pur vago perfettibile modello di scuola del futuro, e su un senso da costruire attorno al rapporto tra processi cognitivi e cambiamenti sociali? 
Il progetto di revisione del titolo V sbandierato dal nuovo presidente del consiglio, e indirizzato, dice lui, a ricentralizzare i criteri di decisione, o quantomeno a far sì che dallo Stato centrale vengano finalmente degli indirizzi chiari di autentico assennato e attuabile governo della res publica, si deve pensare che non valga per il sistema dell'istruzione e della ricerca? Proprio per quello? Si sono confrontati, o almeno parlati, nel merito del loro lavoro e delle scelte che li attendono, il premier e il nuovo ministro?
Mi ricordo le parole di Renzi sulla scuola e gli insegnanti. Tutto si tramuta presto in pochezza, soprattutto negli scenari politici odierni, finché analisi (anche piuttosto vaghe e quindi genericamente condivisibili) non divengono fatti.

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